Intervista a Joaquin Diaz



Febbraio 2002 a Urueña, Spagna
Intervista e traduzione dallo spagnolo di Giordano Dall’Armellina.

Chi è Joaquin Diaz?

Joaquin Diaz può essere definito il monumento vivente del folklore spagnolo. Nato nel 1947 a Zamora, città a nord della Spagna che intreccia i suoi destini con quelli del Cid Campeador, ha dedicato quasi tutta la sua esistenza alla ricerca sulla cultura popolare. Vive oggi a Urueña, villaggio circondato da mura medioevali, non lontano da Valladolid dove ha sede la sua fondazione che prende nome proprio da lui: “Fundaciòn Joaquin Diaz”.

Il suo curriculum è impressionante e occuperebbe 10 pagine. Ricorderò qui che è direttore della rivista “Folklore”, membro di un’infinità di istituti, commissioni, musei, università. Ha ricevuto una dozzina di premi per la sua attività, ha pubblicato più di 50 libri dal 1971 ad oggi e più di 50 dischi nei quali canta accompagnato dalla sua chitarra o, come negli ultimi dischi, da altri strumentisti.

Lo conobbi per la prima volta nel novembre del 2001 e grazie al fatto che il suo sito internet aveva un link su Traditional Arranged: http://www.etnobazar.it/folkmusic decisi di contattarlo. In pochi giorni organizzai il mio viaggio in Spagna e la settimana seguente ero già a Urueña. Passai là solo due giorni e mi ripromisi di ritornare per conoscerlo meglio. E’ in questa seconda occasione, in cui la mia permanenza si protrasse per 3 giorni interi, che approfittai per intervistarlo.

Joaquin, lo devo dire subito, mi ha fatto da specchio, essendo anch’io ricercatore oltre che cantante e suonatore di chitarra. Quest’intervista è dunque filtrata dal mio sentire e dalla mia curiosità di scoprire quali fossero i segreti della professione.

Ho passato tre giorni in casa sua che è dentro questa “Fundacion”. E’ la casa più antica di Urueña con spesse mura e grandi spazi dove ora ha sede un museo etnografico, con strumenti musicali popolari, una importantissima biblioteca, e una altrettanto importantissima raccolta fonografica dove i ricercatori come me, o i semplici curiosi, possono attingere liberamente.

Lasciai passare un giorno intero prima di approcciarmi a lui per l’intervista. Volevo studiarlo meglio, conoscerlo un po’ di più e decisi di non terminare l’intervista nello stesso giorno. In lui ho riconosciuto la mia timidezza. La sua modestia e disponibilità ne fanno un personaggio adorabile.

Cominciai dunque la mia intervista con la domanda più banale possibile:

GDA: Come è nata la passione per le tradizioni popolari? E’ qualcosa che era già presente nella tua famiglia o la hai appresa studiando?

Jjd1D: Le due cose. In casa mia mio nonno mi raccontava favole e racconti popolari, i miei genitori cantavano molte canzoni, alcune delle quali tradizionali e ad un certo punto mi resi conto che tutto il materiale che avevo ricevuto da bambino e successivamente aveva un interesse maggiore di altre cose. Questo periodo coincide con i 13, 14 anni. A 14 anni già formo un gruppo nella mia scuola e a 15 già preparo un intervento per la televisione spagnola. E’ in quel momento che si decide il mio destino di dedizione alla causa folklorica. Mi resi conto che mi interessava scoprire le fonti di quello che avevo ricevuto e che le canzoni, i racconti avevano un contesto, avevano un qualcosa che permetteva di spiegarli in un’altra forma.

GDA: Dalla tua biografia ho letto che già a 20 anni eri negli Stati Uniti a cantare. Ne hai approfittato per fare ricerca?

JD: Più che ricerche erano concerti; solo in Spagna ho fatto lavoro sul campo. Principalmente cantavo in teatri e soprattutto nelle università che avevano il dipartimento di spagnolo, poiché il mio repertorio era di ballate spagnole e canzoni popolari spagnole. Quindi concerti per studenti dell’ultimo anno delle superiori e il primo anno universitario perché è lì che incontro quel tipo di pubblico che io vedevo molto distante dalla tradizione, in un momento nel quale in Spagna non avevano più valore le cose antiche, tutta la società mirava al futuro e il passato non importava niente. La mia preoccupazione era dunque quella che i giovani non avessero rispetto del mondo tradizionale.

Tornando agli Stati Uniti, fu Pete Seeger che mi invitò ad andare dopo una corrispondenza epistolare. Inoltre conoscevo gente all’ambasciata americana a Madrid e cominciai a prepararlo così. C’erano anche professori spagnoli in America che mi conoscevano e così non fu difficile organizzare la tournée.

Lì poi conobbi diversa gente importante, era il 1967, come il direttore del festival di Newport, il direttore della rivista “Folkways” ed ebbi molti contatti epistolari con i cantanti più famosi dell’epoca come Joan Baez. Anche in Spagna avevo contatti come per esempio con Paco Ibañez perché eravamo “sulla stessa barca”. Il nostro obiettivo era di muovere un poco la cultura

GDA: Dopo la morte di Franco nel 1975, come è cambiato il tuo lavoro? E’ stato più facile?

JD: “Ricordo che quando morì Franco stavo facendo lavoro sul campo con la figlia di Alan Lomax vicino a Zamora. Quello che raccoglievamo noi non era generalmente proibito da trasmettere alla radio. E comunque per diverso tempo, anche dopo la morte di Franco, molte canzoni che erano all’indice continuarono a non essere trasmesse. Io terminai di fare concerti nel 1974 e ricordo che la polizia voleva sapere che canzoni facessi. Voleva i titoli, ma in realtà non erano le canzoni che provocavano diffidenza verso di me ma il mio comportamento, perché tutti eravamo nella posizione di voler creare qualcosa di nuovo.

GDA: E il tuo lavoro sul campo? Continui tuttora?

JD:”Ora molto meno. Lavorai moltissimo fra il 75 e l’82 in cui girai tutti i paesini della Castiglia e del Leon., intervistando gente e registrando. Dopodiché si cominciò a pensare di aprire un centro per catalogare questo materiale e renderlo fruibile ad altra gente. All’inizio tenevo tutto in casa mia ma mi resi conto che con tutto il via vai che c’era non era il luogo adatto e che sarebbe stato meglio un luogo pubblico. E’ così che all’inizio degli anni 90 l’obiettivo è stato raggiunto con questa fondazione.

GDA: Perché proprio a Urueña?

JD: Ci sono varie ragioni. La principale era che questa casa non aveva un uso concreto. L’ avevano ristrutturata per fare un hotel però non si realizzò ed era vuota. Vidi che era un buon posto per realizzare il mio progetto. In più stava in un villaggio che poteva essere interessante dal punto di vista turistico. Quindi una doppia offerta: il villaggio con le sue mura medioevali e la fondazione con il suo museo.

GDA: Sei soddisfatto dei risultati di questi 12 anni?

JD: Si, anche se vorrei che tutto fosse realizzato in fretta ma mi rendo conto che tutto ha il suo tempo. Ora è giunto il momento di digitalizzare tutto il materiale, di catalogarlo. Abbiamo bisogno di personale, di mezzi economici per informatizzare tutto il materiale. Già ora lo si può consultare rapidamente.

GDA: C’è molta gente che viene qua a consultare la biblioteca?

JD: Si, viene molta gente, anche se la cultura tradizionale ha molte sfaccettature e ciascuno viene per un suo interesse particolare. Per esempio gente che fa ricerca sull’architettura popolare, altri sul teatro, altri sulla cultura orale e altri ancora sull’artigianato. Insomma nella nostra fondazione si possono trovare risposte a molti aspetti che riguardano il loro tema di ricerca. Anche lo scambio fra le persone che vengono qua è proficuo poiché si scambiano informazioni.

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Il museo di strumenti musicali

 

GDA: Mi hai detto ieri che all’età di 29 anni decidesti di non cantare più in pubblico. Oggi nel 2002 non pensi che sarebbe opportuno riproporti nelle università, nei centri culturali perché i giovani sappiano che esiste questa cultura popolare, e che questa cultura spagnola fa parte di un contesto europeo più grande? Perché no, dunque?

JD: Per due ragioni. Una è perché mai ebbi la soddisfazione di divertirmi comunicando artisticamente. Il momento non era il più appropriato per sviluppare attività esclusivamente artistiche. (ndr. Joaquin smise di cantare in pubblico nel 1974 quando c’era ancora Franco) e l’altra ragione è che nella vita di una persona ci sono diverse tappe e io credo che allora terminai con quella tappa. Non ho una particolare attrazione per il palcoscenico e so che da questo posto posso creare la possibilità che nuova gente si interessi alla cultura popolare, che lavorino in altri campi. E’ un’opzione, è una scelta. La vita dell’essere umano è costantemente fatta di scelte. Io ho scelto questo e avrei potuto scegliere l’altro. In questo momento lo vedo quasi impossibile tornare un’altra volta ad esibirmi. Ci sono altre persone che lo stanno facendo e che lo fanno bene.

GDA: E solo conferenze?

JD: Si, in questi ultimi 10 anni ho fatto molte conferenze, però è un lavoro stancante ed è quasi incompatibile con quello che devo fare qui. La fondazione richiede che si dedichi molto tempo per cui nel giugno del 2001 decisi di smettere anche con le conferenze. Come ho detto prima bisogna scegliere fra una cosa e l’altra e ho scelto di fare almeno una cosa bene, piuttosto che tre male, dedicando tutto il mio tempo alla fondazione.

GDA: Cosa sta al fondo di questa scelta?

JD: E’ un lavoro molto diverso. Mi preoccupa il fatto di annoiarmi facendo altre cose, o sentire un po’ di monotonia. Perciò per me è molto interessante poiché ogni giorno ho un problema da risolvere, una persona da aiutare, un lavoro da fare, qualcosa da scrivere, una parte di una ricerca da completare. Tutta questa varietà mi piace molto. Quando canti devi farlo ad una determinata ora, tutto è rigidamente organizzato. A me piace non sapere quello che il giorno ti può riservare. Lo preferisco.

GDA: Tuttavia continui ad incidere dischi. Quale e’ il tuo nuovo lavoro?

JD: Si chiama “La musica del pueblo”. E’ un disco che comincia una raccolta che riguarda la musica popolare scritta. Ossia, sono trascrizioni fatte da musicisti che avevano un loro criterio estetico e che nei secoli passati hanno trascritto la musica popolare. Ho incominciato con una raccolta di canzoni del diciannovesimo secolo di un musicista che ha revisionato la musica delle province spagnole. Il secondo disco sarà del sedicesimo secolo, tratto da uno scritto di Francisco De Salinas, un linguista di Salamanca che ha trascritto una quarantina di melodie popolari in un suo trattato. E’ un lavoro che non si è fatto mai finora. Il terzo sarà sulla visone che si aveva in Europa della musica spagnola. Ci sono autori, come Beethoven, che arrangiarono la musica spagnola. Questi aspetti mi interessano moltissimo. Potrebbero essere 30 o 40 dischi perché ciascuno sarà diverso. In tutti i dischi cercherò di seguire fedelmente le trascrizioni con gli strumenti indicati. Quindi ingaggerò musicisti specializzati per ciascuna epoca.

GDA: Ascolta Joaquin, finora abbiamo parlato di cose da fare e di cose fatte. Ora vorrei entrare un po’ più profondamente nell’uomo Joaquin Diaz. Ho letto una delle tue poesie che dice:

Estoy esperando a la muerte con
Los ojos abiertos
Con el ànimo triste y suspendido
Como martir que mira a su verdugo y le perdona
Con las manos vacias
Firmes y temblorosas
Con la boca entreabierta
Por temor a escuchar
Mi propia voz después que todo pase;
con un leve dolor por lo que dejo
y la emocion de quien imprende viaje
Estoy esperando a una muerte
Que juega con mis ansias
Y se acerca y se aleja satisfecha
Al comprobar que siempre asusta en el peor momento ;
cuando, ajeno al destino,
olvidado de todo,
escucho a mis sentidos
entonar sus placenteros cantos
y yo acepto el engaño, dulcemente
seducido por el feliz retraso.

(Sto aspettando la morte con gli occhi aperti, con l’animo triste e sospeso, come martire che guarda il suo carnefice e lo perdona, con le mani vuote, ferme e tremanti, con la bocca socchiusa per paura di ascoltare la mia propria voce dopo che tutto fosse finito; con un lieve dolore per quello che lascio e l’emozione di chi intraprende un viaggio. Sto aspettando la morte che giochi con le mie ansie e si avvicini e si allontani soddisfatta nel verificare che sempre fa paura nel peggior momento; quando, incurante del destino, dimentico di tutto, ascolto il mio sentire intonare i suoi piacevoli canti e io accetto l’inganno, dolcemente sedotto per il felice ritardo)

Mi sorge ora una domanda. Quale è la tua relazione con la morte?

JD: La relazione che hanno tutti gli esseri vivi; è un concetto sicuramente intellettuale della morte che si può vedere in un altro mio libro, Ho avuto una relazione che va aldilà dell’intellettuale nel vedere persone vicine che morirono nel corso della mia vita. Ciò ti porta a riflettere e a sentire sia la tua parte intellettuale sia la emotiva. Questa è la doppia relazione che la gente non osa intrattenere perché si ha abbastanza paura del fatto che ci sia la morte. Si preferisce non parlarne e si ha un concetto poco naturale. E’ un fatto fisico e tentare di occultarlo è un po’ assurdo. I momenti nei quali la mia “onda vitale” e’ stata più bassa erano i momenti di depressione e in quelli i pensieri di morte ti sono più vicini. In realtà molte persone stanno percorrendo lo stesso cammino in posti diversi e di tanto in tanto ci incontriamo e vediamo che è lo stesso cammino. Non c’e’ molto da inventare di nuovo.

GDA: la mia ultima domanda riguarda la solitudine. Io vedo che qui tu stai solo. Quando la gente se ne va e tu rimani solo in questa grande casa, come ti senti?

JD: Da una parte la solitudine la vedo relazionata con la mia propria esistenza. Durante il giorno mi relaziono con una persona e poi con un’altra però riconosco che solo quando sono con me stesso, rifletto sulle cose, maturo le idee. Questo per me è assolutamente necessario. Ho bisogno di quelle ore al giorno e se non le ho mi sento male. Tutti i miei progetti si preparano in solitudine e poi mi confronto con altri, ma i miei progetti migliori insorgono quando sto da solo.

GDA: Io intendo una solitudine fatta di mancanza di una donna, di qualcuno di intimo con cui confrontarsi, qualcuno con cui condividere le nostre emozioni. Anch’io vivo solo e faccio ricerca e mi si presenta questa eterna lotta fra il tempo da dedicare alla mia passione e quella da dedicare ai sentimenti.

JD: Chiaro, questo è un problema che si presenta ad un ricercatore. Difficilmente un ricercatore potrà avere una relazione cosiddetta normale con una compagna. La sua passione per la ricerca può portarlo a trascurare la sua relazione con la donna a meno che lei stessa non sia ricercatrice e non condivida la stessa passione intellettuale come nel caso di Menendez Pidal (ndr. Il più grande ricercatore spagnolo del passato) e sua moglie. Ma è stata una fortuna che è quasi impossibile che si ripeta. E’ difficile che due persone abbiano la stessa levatura intellettuale e siano capaci di lavorare proficuamente nello stesso campo. Tutto dipende da quello che uno vuole sacrificare di questa ricerca, ossia il tempo da dedicare a quest’altra persona. E importante che l’altra persona sia capace di permetterci di lavorare nel momento in cui stiamo facendo ricerca. Non è questione di sentimento, quello che l’altra persona chiede è il tempo.

GDA: Tu sei timido, vero?

JD: Si, anche se lo vedo come un difetto positivo. La timidezza può essere molto positiva perché mette insieme qualità, come per esempio la capacità di osservazione, la discrezione.


Qui si conclude la mia intervista con il registratore. Il giorno seguente condividemmo un lauto pasto con un eccellente vino e con un altro famoso ricercatore. Poi prima di partire chiesi di vedere e di provare la chitarra presente in quasi tutti i suoi dischi. Per quanto possa essere stupido mi sentii emozionato nel toccarla. Nel suo libro per gli ospiti, nel quale lessi le dediche lasciate dai Calicanto che fecero un concerto anni fa a Urueña prima che Joaquin smettesse di organizzarli, scrissi che lo ringraziavo per tutto ciò che aveva fatto per le mie ricerche (copie di dischi rari, registrazioni e valanghe di fotocopie) ma il regalo più prezioso sarebbe stato un abbraccio sull’uscio della fondazione. Il che avvenne, fra due timidi, che sanno essere uomini.